L’utopia di rappresentare città futuristiche
Blade Runner, 1982. Fonte : screenmusings.org
Inventare il futuro è sempre stata un’arte affascinante, sia per il lettore che per il creatore, spingendo le migliori invenzioni del secolo e i loro vizi al loro culmine. Perché se il futuro porta la sua parte di desolazioni e incertezze, legate alle risorse aride e alla tecnologia talvolta mal sfruttata, la capacità d’invenzione dell’essere umano rimane sempre senza limiti e permette di creare vie d’uscita utopiche. Nei film, nei fumetti o nei romanzi futuristici, la città e la società in generale sono rappresentate sotto la loro migliore angolazione (utopia) per far sognare gli uomini, o evidenziando i loro difetti per prevenire una minaccia che alienerebbe i suoi abitanti (distopia).
Ecco una panoramica delle visioni di alcuni uomini, scrittori, designer, sceneggiatori e architetti, che hanno contribuito all’utopia di sognare la città.
Utopia, eutopia…
Sarebbe utopistico credere che l’idea di utopia sia scoppiata un bel giorno di maggio, sotto la penna di un inventore, nella mente di un conquistador o nell’opera di un artista isolato. La nozione di utopia sembra intimamente legata alla vita in società e al desiderio comune di credere in un altrove immaginario e idealizzato. Sicuramente è apparsa all’interno di una società all’alba dei suoi primi limiti, molto prima che prendesse forma e fosse nominata in un libro. Come spiega la psicanalista Elisabeth Roudinesco:
“L’utopia è presente in tutte le concezioni, idee, filosofie che vogliono cambiare il mondo. (…) È un progetto lontano, ma che irriga e nutre la speranza nel cuore delle società.”
I greci lo fanno meglio
Tra i greci, da cui proviene la parola, l’idea di utopia è quella di un mondo ideale ma passato, di un mito estinto da cui si trae una certa nostalgia, un mondo armonioso che unisce uomini e dei. La parola utopia paradossalmente non è usata presso gli antichi ma appare per la prima volta nel 1516 nel libro Utopia di cui abbiamo parlato sopra, inventato dall’umanista inglese Thomas More.
Utopia deriva dal prefisso privato -u- aggiunto a -tópos- (luogo, in greco) per descrivere un luogo che non è da nessuna parte o -eu-tópos- il luogo del bene.
Isola di Utopia, di Thomas More
Cercando una terra lontana e abbondante
In effetti, utopia è sia ‘u’ che ‘eu’: un luogo inaccessibile e irraggiungibile, ma che offre una vita migliore. Nel Medioevo, a causa della durezza della vita, si cominciò a proiettare un ideale in cui gli uomini sarebbero stati liberati dal male, dal lavoro o dalla fame. Essendo il mondo ancora da scoprire, l’immaginazione aveva molto da creare! La gente conosceva Atlantide da molto tempo, quest’isola inghiottita e perduta per sempre, e More raffigura in Utopia un’isola lontana in cui “essendo l’abbondanza estrema in tutto, non si teme che qualcuno chieda oltre il suo bisogno”.
A partire dal XIII secolo, alcuni testi menzionano la terra di Cocagne, “un luogo immaginario dove tutto si trova in abbondanza e senza sforzo, incoraggiando così l’avidità e la pigrizia”, che Brueghel dipinge nel 1567. Vediamo uomini liberati dal cibo, in un paesaggio dove non manca nulla e tutto sembra essere disponibile allungando le braccia, come quelle frittelle sul tetto, o quel maiale pretagliato che salta con un coltello sulla schiena juste come l’uovo sodo in primo piano, o quella nuvola di semola in cui si tuffa un uomo, sullo sfondo:
La terra di Cocagne, Brueghel, 1567
In nome del progresso
Gradamente, con le grandi spedizioni nautiche, il mondo viene mappato e rimane sempre meno spazio per terre inesplorate e idealizzate. Con l’avvento del progresso, le idee dell’illuminismo e l’impulso della rivoluzione francese, il motivo dell’utopia non è più quello di una terra incognita da scoprire, ma fa parte di un ideale da raggiungere sulla terra. Intorno al 1810, siamo convinti che il Progresso cambierà il mondo! Si ha fiducia nell’uomo e si spera nel trionfo della morale e della ragione. Anche Paul Signac firma il suo quadro Au temps d’Harmonie con un sottotitolo che parla chiaro: “L’età dell’oro non è nel passato, è nel futuro”.
In questo stato d’animo, l’illustratore e romanziere Albert Robida scrive una trilogia cult in cui immerge il lettore in un mondo futuristico dove la macchina è uguale all’uomo: Il Novecento (1883), La guerra nel Novecento (1887) e Il Novecento, vita elettrica (1890).
Nel primo libro, immagina la globalizzazione nell’Hôtel International, dove “i viaggiatori riscoprono, all’arrivo, le linee della loro architettura nazionale e non lasciano le loro abitudini, per così dire”. Robida anticipa anche i movimenti femministi e le rivolte che porteranno le donne a indossare i pantaloni. Immagina una specie di Skype che permette di immergersi nell’atmosfera di un luogo lontano restando seduti nel proprio divano, o inventa l’audioguida del museo quando “istantaneamente un fonografo dà il nome del pittore, il titolo del quadro e una breve ma sostanziale nota”.
Premuto da questo slancio positivo portato dal progresso, mette gli inventori (e forse se stesso con loro) su un piedistallo e immagina un viale con statue che portano la loro effigie per sottolineare ogni scoperta, perché anche “l’invenzione della pentola indica il passaggio dallo stato di natura allo stato di civiltà”. La sua visione ottimistica e futuristica immerge il lettore dell’epoca in una Parigi tecnologica brulicante di veicoli volanti, pubblicità e turisti.
Nelle sue incisioni tratte dal primo libro, vediamo macchine volanti di tutti i tipi, un ristorante che galleggia sul tetto di Notre-Dame, ingorghi di traffico aereo, case rotanti o pubblicità che invadono il minimo spazio urbano (clicca per vedere le foto a grandezza naturale):
L’artista, per la sua capacità di rappresentare i sogni, è un attore principale dell’utopia. Rappresenta le ambizioni di armonia e di fiducia, in un impulso fraterno di interesse generale. Facendo sognare gli uomini, gli artisti promuovono questo sogno inconscio, per costruire una società migliore.
Dall’utopia alla distopia
Ma con l’evoluzione legata al progresso nascono i dubbi e i possibili limiti di un mondo che si credeva perfetto. L’utopia, se proietta l’immaginario comune in un mondo idealizzato, sottolinea intrinsecamente i difetti e i vizi del presente. Se c’è sogno e proiezione, è perché c’è un desiderio di cambiamento o almeno una voglia di qualcosa che ancora non esiste.
L’Utopia di Thomas More, nel presentare un mondo egualitario e pacifista, già denunciava le disuguaglianze e i vizi dell’Inghilterra del XVI secolo. Senza precipitare nella distopia, che raffigura una società generalmente totalitaria con pieni poteri in cui l’uomo è solo una pedina, sembrerebbe che ci sia sempre un verme nella frutta…
Venti anni prima di Robida, Jules Verne, sorprendentemente pessimista, immagina Parigi nel XX secolo. Scritto nel 1860, descrive la capitale 100 anni dopo, nel 1960, con una visione più cupa di Robida. Sarà pubblicato solo nel 1994 da Hachette, il suo editore affermando all’epoca che “nessuno oggi crederà alle sue profezie”. In questo romanzo futurista, la tecnologia e la finanza sono i due principi guida della società, dove “l’importante, infatti, non è nutrirsi, ma guadagnare abbastanza per nutrirsi” e dove l’arte e i suoi derivati, giudicati non utili né produttivi, sono abbandonati.
L’illustratore François Schuiten disegna le immagini del romanzo, nello stile delle incisioni del XIX secolo. La copertina, che risale al 1995, ricorda le tecniche di stampa dei libri d’epoca. Torneremo di seguito sull’opera di François Schuiten.
Nella Parigi del XX secolo Jules Verne anticipa l’influenza dell’inglese sul francese, l’abbandono del greco e del latino a scuola, il drastico aumento del traffico motorizzato, l’ascesa della robotica, dell’intelligenza artificiale, della sorveglianza dell’individuo. Una Parigi che sembra sfasata rispetto al nostro presente, ma che è già allarmante per certe devianze che stiamo vivendo oggi.
Il fallimento dell’attuazione
Queste società “perfette” sono spesso luoghi di controllo benevolo, di sottomissione a una legge suprema (anche se buona), e di vita comunitaria in cui l’individuo non ha posto al di fuori del gruppo. Come molte teorie, l’idea è buona ma inapplicabile nella pratica. Nel XX secolo, questo tipo di utopia ha dato origine a mostri, che si tratti del nazismo, del comunismo staliniano, o di progetti urbani magniloquenti che non sono mai stati veramente completati, o addirittura falliti come quelli di cui abbiamo parlato nel nostro articolo sulla mappa della metropolitana di Parigi come EPCOT o la Saline Royale.
Se volete andare oltre, Brasilia, le città di Le Corbusier o Auroville sono uno degli esempi citati in questo articolo sull’architettura destinata al fallimento delle città utopiche.
La città futurista e utopica di Brasilia. Crediti: Claude-Meisch
Dall’artista al creativo: realizzare i sogni o vendere i sogni
Nel XX secolo, con l’aumento dei progressi tecnologici nella stampa e l’uso crescente della fotografia, gli artisti hanno gradualmente lasciato il posto ai creativi, che hanno poi preso il controllo della diffusione dei messaggi utopici.
Dagli inizi della pubblicità, i codici e i simboli sono gli stessi, tratti da un ideale antico: una postura che ricorda la pittura di un maestro da YSL (cfr. questa pubblicità del profumo Opium che ricorda le odalische o la morte di Cleopatra), simboli mitologici da Chanel, musica con riferimenti divini nella pubblicità dei rasoi (“Sono la tua Venere”)…
Come ai tempi dei pittori, questi messaggi pubblicitari mirano a incoraggiare i consumatori a tendere inconsciamente verso un modello utopico. L’unica differenza è che invece di rivolgersi al bene comune e alla creazione di una società fraterna, questi messaggi di comunicazione incoraggiano il consumo materialista e individualista. Il creativo non ha più lo stesso ruolo.
Anche oggi, alcuni artisti ci incoraggiano a tuffarci nel futuro e a mettere in discussione le nostre abitudini. È il caso dell’illustratore François Schuiten.
Il futuro nei fumetti
Al festival Étonnants Voyageurs di Saint-Malo, lo sceneggiatore Benoît Peeters è venuto a raccontarci la sua visione di città futuristiche che ha mappato e inventato con il suo collega disegnatore François Schuiten (l’uomo che ha disegnato la copertina del libro di Verne, ricordiamo), attraverso i loro album Cités Obscures, e più recentemente in Revoir Paris.
Peeters e Schuiten si sono incontrati nel 1968, non sulle barricate ma sui banchi di scuola. Uno disegna, l’altro scrive. Lanciano un giornale scolastico, si perdono di vista per qualche anno e poi si ritrovano per continuare la loro avventura. Peeters diventa uno specialista di Tintin e un teorico del fumetto e dello storyboard, Schuiten fa parte della striscia Metal Hurlant, la rivista fondata da Les Humanoïdes Associés che riunisce i fumetti di fantascienza e pubblica molti dei principali artisti del fumetto.
Da questa amicizia nacquero nel 1983 le Obscure Cities, un corpus di albi di fantascienza ambientati in città futuristiche invisibili agli umani, su un pianeta nascosto tra l’asse Terra-Sole.
Le città, Brüsel, Pârhy, Urbicande o Alaxis, si basano su un’immaginazione fantastica ma coerente, sostenuta da personaggi e punti di vista vari, lasciando che il mistero si alzi. Ogni dettaglio è plausibile, ogni macchina è fattibile. Schuiten è un architetto del disegno o un disegnatore-architetto, e il carattere delle città ha spesso la precedenza su quello dei personaggi.
Un futuro allarmante
Gli album parlano di riscaldamento globale che porta alla deriva gli iceberg in Egitto, di rifiuti sovrabbondanti e dell’enigma del riciclaggio, diventato una professione estremamente popolare… Illustrano città verticali all’estremo come Lione (foto sotto, a sinistra, poi le 2 successive per i dettagli), o serre in serre giganti mantenute da lavavetri, strade coperte da autostrade o macchine volanti.
Queste città immaginate si ispirano a libri di Verne, Robina o Kafka, e a grandi film di SF distopici come Blade Runner, Metropolis o Brazil, come illustrato qui sotto.
Lione e Parigi nel futuro immaginato
La tettoia verticale degli edifici a Lione, dettaglio
Fourvière nel mezzo della città futuristica, detail
Metropolis, 1927
Metropolis, 1927
Blade Runner, 1982. Fonte : screenmusings.org
Come spiega Peeters, questi mondi non sono né utopie né visioni desiderate del futuro. Sembrano nascere da un sogno, una rappresentazione futuristica della città né ideale né plausibile, con sempre un verme nella mela. Sono visioni del mondo un po’ traballanti, per farci reagire come avrebbe fatto una visione utopica, senza farcene venire voglia.
Una cupola su Parigi
Realistici e forse nostalgici, Peeters e Schuiten fanno rivivere le Halles, ricostruite nello stesso modo nell’album Revoir Paris, che si svolge nel 2156. La vecchia Parigi, congelata per sempre nella sua campana dove si bagna una meteorologia perfetta, permette di far vivere ai turisti privilegiati un’esperienza perfetta, passeggiando in edifici Haussmaniens tanto splendidi quanto disabitati, o destinati ai più fortunati. Intorno, la periferia nera contrasta con questa bolla di memoria senza tempo, e fa eco alla Parigi di oggi. I paesaggi ricordano alcune scene di Blade Runner e le incisioni di Robida, in cui l’uomo è minuscolo nella folle grandezza della città. Come spiega lo scrittore:
“I luoghi che immaginiamo sono caricature, dove mettiamo i nostri desideri e le nostre ansie.”
Le Halles de Paris ricostruite in un ambiente verde
Paris sotto la sua campana, inaccessibile alla periferia
Sopra la cupola di Parigi
Blade Runner, 1982. Fonte: screenmusings.org
Lo sceneggiatore e il fumettista sottolineano così il rischio di voler troppo fare di Parigi una città-museo, a rischio di non riuscire a farla evolvere con il suo tempo, e di farne una specie di gigantesca palla di neve. Il ruolo di questi disegnatori e sceneggiatori è dunque quello di allarmare tanto quanto di far sognare.
La città del futuro, oggi
Alcuni artisti e architetti vivono già nel futuro, e immaginano le vere città di domani. Altri, come il fotografo e architetto Cyrus Cornut, non immaginano ma mostrano città in cui “la scala umana è ridotta a nulla. L’uomo dal futuro individualista si perde nell’oceano urbano. Le case cadono, i grattacieli crescono”. Una visione brutale e inquietante di un presente molto realistico.
Con il suo occhio da architetto compone immagini che sembrano fumetti futuristici, come qui in Asia, dove linee di cemento disegnano paesaggi disumanizzati:
Credito: Cyrus Cornut
Presentando la realtà, queste fotografie ci fanno riflettere sul nostro futuro e mettono in discussione il posto dell’uomo nella città.
Tra gli architetti che immaginano la città di domani, alcuni creano progetti utopici usciti da un film di fantascienza, in contrappunto con le choke cities fotografate da Cornut. Rappresentazioni futuristiche ma reali.
Città verde e città gioiello, le eu-topie del presente?
Immaginate una città verde in mezzo al deserto. È così che sorge la città di Masdar, negli Emirati Arabi Uniti, una “fonte” ecologica (masdar in arabo) costruita dal 2008 a pochi minuti dall’aeroporto di Abu Dhabi.
Le case, ispirate all’architettura tradizionale locale, sono accanto agli edifici commerciali. Tutti gli edifici sono passivi quindi non consumano energia e offrono una climatizzazione naturale con 10°C in meno rispetto all’esterno. La parola chiave di questo successo: progresso tecnologico ed ecologico. Un grande campo di pannelli solari alimenta la città, interamente pedonale, e attraversata da una rete di veicoli elettrici automatizzati.
Masdar, che accoglie già diverse migliaia di persone, vuole attirare le imprese internazionali: niente tasse, un’installazione in 5 giorni, un incubatore e un centro di ricerca &sviluppo ecologico. Cercate un nuovo ufficio…?
Soprattutto, bisogna chiedersi se questo tipo di modello, che fa fiorire la natura nel deserto, è veramente sostenibile o piuttosto chimerico? Si scommetterebbe più volentieri su una città come Tafilatet in Algeria, un’oasi che promuove la permacultura nella natura e nella società, e sembra destinata a un futuro più verde e sostenibile.
Si potrebbe scrivere per ore di progetti futuristici che vedranno presto la luce, soprattutto nelle megalopoli asiatiche. Uno dei progetti architettonici più sorprendenti del momento è la realizzazione del “gioiello” dell’aeroporto di Singapore, prevista per il 2019.
La struttura del Jewel of Changi combina centro commerciale, pensilina sospesa, ristorante, hotel e giardini, attorno alla “più grande cascata coperta” (i singaporiani amano fare le cose più grandi del mondo). Per non parlare della funzione dell’aeroporto, naturalmente. Una specie di mini-città nella città, dove ci si può divertire, mangiare, consumare, dormire e viaggiare.
Jewel, il nuovo terminal dell’aeroporto di Changi
La cupola Jewel
Questa specie di struttura futuristica impressiona per la sua eccentricità e la sua grandiloquenza ma sembra non avere altra funzione che essere un eu-topie, un “luogo del bene”, in cui tutti verrebbero a divertirsi e a passeggiare. Questa costruzione è destinata a diventare un luogo fittizio e concentrato di comodità, proprio come Singapore, città del consumo e del divertimento. Un po’ come Parigi sotto la sua cupola immaginata da Schuiten e Peeters, il Gioiello sarà riservato solo ai più ricchi, sotto una temperatura ideale, lontano dalle preoccupazioni della vita quotidiana. Come una rappresentazione della città, idealizzata ma irreale.
Come promemoria, la cupola di Schuiten sotto cui dorme una Parigi ideale:
La cupola di Parigi
Come abbiamo visto, i progetti di città utopica del passato sono stati destinati al fallimento, superati da questioni sociodemografiche. La chiave del successo di una città utopica oggi sarebbe quella di progettarla su piccola scala e riservarla esclusivamente alle élite (come a Singapore) e agli investitori (a Masdar)? Forse, per definizione, la città u-topica deve rimanere un “luogo del nulla” e continuare ad esistere nell’immaginazione degli uomini…?