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Giu 1, 2021
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Discorso di presentazione di Gustaf Hellström, membro dell’Accademia Svedese, 10 dicembre 1950

William Faulkner è essenzialmente uno scrittore regionale, e come tale ricorda ai lettori svedesi di tanto in tanto due dei nostri più importanti romanzieri, Selma Lagerlöf e Hjalmar Bergman. Il Värmland di Faulkner è la parte settentrionale dello stato del Mississippi e la sua Vadköping si chiama Jefferson. Il parallelismo tra lui e i nostri due connazionali potrebbe essere esteso e approfondito, ma il tempo non permette ora tali escursioni. La differenza – la grande differenza – tra lui e loro è che l’ambiente di Faulkner è molto più scuro e sanguinoso di quello in cui vivono i cavalieri di Lagerlöf e le bizzarre figure di Bergman. Faulkner è il grande scrittore epico degli stati del sud con tutto il loro background: un passato glorioso costruito sulla schiavitù negra a basso costo; una guerra civile e una sconfitta che ha distrutto la base economica necessaria per la struttura sociale allora esistente; un lungo e doloroso periodo di risentimento; I romanzi di Faulkner sono una descrizione continua e sempre più profonda di questo processo doloroso, che egli conosce intimamente e sente intensamente, provenendo da una famiglia che è stata costretta a ingoiare i frutti amari della sconfitta fino al loro nucleo divorato dai vermi: impoverimento, decadenza, degenerazione nelle sue molteplici forme. È stato definito un reazionario. Ma anche se questo termine è in qualche misura giustificato, è bilanciato dal senso di colpa che diventa più chiaro e più caro nel tessuto oscuro a cui egli lavora così instancabilmente. Il prezzo dell’ambiente da gentiluomo, della cavalleria, del coraggio e dell’individualismo spesso estremo era la disumanità. In breve, il dilemma di Faulkner potrebbe essere espresso così: egli piange e, come scrittore, esagera un modo di vivere che lui stesso, con il suo senso di giustizia e umanità, non sarebbe mai in grado di digerire. È questo che rende il suo regionalismo universale. Quattro anni di guerra sanguinosa hanno portato ai cambiamenti della struttura sociale che i popoli europei, tranne i russi, hanno impiegato un secolo e mezzo per subire.

È sullo sfondo della guerra e della violenza che lo scrittore cinquantaduenne ambienta i suoi romanzi più importanti. Suo nonno ha avuto un alto comando durante la guerra civile. Lui stesso è cresciuto nell’atmosfera creata dalle imprese belliche e dall’amarezza e dalla povertà derivanti dalla sconfitta mai ammessa. A vent’anni entrò nella Royal Air Force canadese, si schiantò due volte e tornò a casa, non come un eroe militare ma come un giovane fisicamente e psichicamente danneggiato dalla guerra con prospettive dubbie, che per alcuni anni affrontò un’esistenza precaria. Si era unito alla guerra perché, come si espresse il suo alter ego in uno dei suoi primi romanzi, “non si vuole sprecare una guerra”. Ma dal giovane che un tempo era stato assetato di sensazioni e di battaglie, si sviluppò gradualmente un uomo il cui disgusto per la violenza si esprime sempre più appassionatamente e potrebbe essere riassunto dal quinto comandamento: Non uccidere. D’altra parte, ci sono cose che l’uomo deve sempre mostrarsi riluttante a sopportare: “Alcune cose”, dice uno dei suoi ultimi personaggi, “bisogna sempre essere incapaci di sopportare. Ingiustizia e oltraggio e disonore e vergogna. Non per la gloria e non per i soldi – semplicemente rifiutati di sopportarle”. Ci si potrebbe chiedere come queste due massime possano essere conciliate o come Faulkner stesso preveda una riconciliazione tra loro in tempi di illegalità internazionale. È una domanda che egli lascia aperta.

Il fatto è che, come scrittore, Faulkner non è più interessato a risolvere i problemi di quanto non sia tentato di indulgere in commenti sociologici sugli improvvisi cambiamenti nella posizione economica degli stati del sud. La sconfitta e le conseguenze della sconfitta sono solo il terreno da cui crescono le sue epopee. Non è affascinato dagli uomini come comunità ma dall’uomo nella comunità, l’individuo come unità finale in se stesso, curiosamente indifferente alle condizioni esterne. Le tragedie di questi individui non hanno nulla in comune con la tragedia greca: essi sono condotti alla loro fine inesorabile dalle passioni causate dall’eredità, dalle tradizioni e dall’ambiente, passioni che si esprimono o in uno scoppio improvviso o in una lenta liberazione da restrizioni forse vecchie di generazioni. Con quasi ogni nuova opera Faulkner penetra più a fondo nella psiche umana, nella grandezza dell’uomo e nei suoi poteri di abnegazione, brama di potere, cupidigia, povertà spirituale, grettezza, ostinazione burlesca, angoscia, terrore e aberrazioni degenerate. Come psicologo indagatore è il maestro ineguagliato tra tutti i romanzieri inglesi e americani viventi. Nessuno dei suoi colleghi possiede i suoi fantastici poteri immaginativi e la sua capacità di creare personaggi. Le sue figure subumane e sovrumane, tragiche o comiche in modo macabro, emergono dalla sua mente con una realtà che poche persone esistenti – anche quelle più vicine a noi – possono darci, e si muovono in un ambiente i cui odori di piante subtropicali, profumi di signore, sudore negro e odore di cavalli e muli penetrano immediatamente anche nella calda e accogliente tana di uno scandinavo. Come pittore di paesaggi ha la conoscenza intima del cacciatore del proprio territorio di caccia, la precisione del topografo e la sensibilità dell’impressionista. Inoltre – accanto a Joyce e forse anche di più – Faulkner è il grande sperimentatore tra i romanzieri del ventesimo secolo. A malapena due dei suoi romanzi sono simili tecnicamente. Sembra che con questo continuo rinnovamento abbia voluto raggiungere quell’ampiezza maggiore che il suo mondo limitato, sia nella geografia che nella materia, non può dargli. Lo stesso desiderio di sperimentare si manifesta nella sua padronanza, ineguagliata tra i moderni romanzieri inglesi e americani, della ricchezza della lingua inglese, una ricchezza derivata dai suoi diversi elementi linguistici e dai periodici cambiamenti di stile – dallo spirito degli elisabettiani fino allo scarno ma espressivo vocabolario dei negri degli stati del sud. Nessuno dopo Meredith – eccetto forse Joyce – è riuscito a incorniciare frasi così infinite e potenti come i rulli dell’Atlantico. Allo stesso tempo, pochi scrittori della sua epoca possono rivaleggiare con lui nel dare una catena di eventi in una serie di brevi frasi, ognuna delle quali è come un colpo di martello, che conficca il chiodo nell’asse fino alla testa e lo assicura in modo inamovibile. La sua perfetta padronanza delle risorse della lingua può – e spesso lo fa – portarlo ad accumulare parole e associazioni che mettono a dura prova la pazienza del lettore in una storia emozionante o complicata. Ma questa profusione non ha niente a che vedere con l’ostentazione letteraria. Né testimonia semplicemente l’abbondante agilità della sua immaginazione; in tutta la loro ricchezza, ogni nuovo attributo, ogni nuova associazione ha lo scopo di scavare più a fondo nella realtà che il suo potere immaginativo evoca.

Faulkner è stato spesso descritto come un determinista. Lui stesso, tuttavia, non ha mai affermato di aderire a una particolare filosofia di vita. Brevemente, la sua visione della vita può forse essere riassunta nelle sue stesse parole: che il tutto (forse?) non significa nulla. Se non fosse così, Colui o Loro che hanno creato l’intero tessuto avrebbero disposto le cose in modo diverso. Eppure deve significare qualcosa, perché l’uomo continua a lottare e deve continuare a lottare finché, un giorno, tutto sarà finito. Ma Faulkner ha una convinzione, o meglio una speranza: che ogni uomo prima o poi riceve la punizione che merita e che il sacrificio di sé non solo porta con sé la felicità personale, ma si aggiunge alla somma delle buone azioni dell’umanità. È una speranza, l’ultima parte della quale ci ricorda la ferma convinzione espressa dal poeta svedese Viktor Rydberg nel recitativo della cantata presentata al conferimento della laurea giubilare a Uppsala nel 1877.

Signor Faulkner – Il nome dello stato meridionale in cui lei è nato e cresciuto è stato a lungo ben noto a noi svedesi, grazie a due degli amici più vicini e più cari della sua infanzia, Tom Sawyer e Huckleberry Finn. Mark Twain ha messo il fiume Mississippi sulla mappa letteraria. Cinquant’anni dopo ha iniziato una serie di romanzi con i quali ha creato dallo stato del Mississippi uno dei punti di riferimento della letteratura mondiale del ventesimo secolo; romanzi che con la loro forma sempre diversa, il loro intuito psicologico sempre più profondo e intenso, e i loro personaggi monumentali – sia buoni che cattivi – occupano un posto unico nella moderna narrativa americana e britannica.

Signor Faulkner – È ora mio privilegio chiederle di ricevere dalle mani di Sua Maestà il Re il Premio Nobel per la Letteratura, che l’Accademia Svedese le ha assegnato.

Al banchetto, Robin Fåhraeus, membro dell’Accademia Reale delle Scienze, si è rivolto all’autore americano: “Signor William Faulkner – Abbiamo sentito con grande piacere che lei sarebbe venuto nel nostro paese per ricevere personalmente il suo premio. Siamo davvero felici di salutarla come artista eminente, come analista distaccato del cuore umano, come grande autore che in modo brillante ha ampliato la conoscenza che l’uomo ha di se stesso.”

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