Cosa rende grande la narrativa poliziesca, secondo T. S. Eliot

Giu 1, 2021
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Eliot stava componendo le sue recensioni nei primi anni della Golden Age della narrativa poliziesca, quando autori come Sayers, Agatha Christie e John Dickson Carr stavano sfornando dei whodunits signorili con una variegata serie di sospetti e metodi di omicidio bizzarri. Più ancora delle storie di Poe o Doyle, la prima opera che per Eliot servì da modello per il genere fu “The Moonstone”, di Wilkie Collins, un melodramma tentacolare sul furto e il recupero di un diamante indiano, che apparve a puntate sulla rivista All the Year Round di Charles Dickens nel 1868. Nella sua introduzione all’edizione di Oxford World Classics del 1928 del romanzo, Eliot lo definì “il primo, il più lungo e il migliore dei moderni romanzi polizieschi inglesi”. (La storia è piena di lunghi colpi di scena e portentosi cliffhanger, molti dei quali non hanno particolare rilevanza per il mistero in questione; ci viene detto tanto delle abitudini di lettura dell’amministratore della casa, un fan di “Robinson Crusoe”, e della fragile storia d’amore tra il bel Franklin Blake e l’impetuosa Rachel Verinder, quanto delle circostanze che circondano il furto. Per Eliot, tali digressioni contribuivano a conferire al mistero un “elemento umano intangibile”. In una recensione scritta nel numero di gennaio 1927 di The Criterion, sostenne che tutta la buona narrativa poliziesca “tende a tornare e ad avvicinarsi alla pratica di Wilkie Collins”

Un principio chiave della detection della Golden Age era il “fair play” – l’idea che un lettore attento deve in teoria avere le stesse possibilità di risolvere il mistero del detective della storia. Per stabilire i parametri della correttezza, Eliot suggerisce che “il carattere e i motivi del criminale dovrebbero essere normali” e che “travestimenti elaborati e incredibili” dovrebbero essere banditi; scrive che un buon giallo non deve “basarsi su fenomeni occulti o … scoperte fatte da scienziati solitari”, e che “macchinari elaborati e bizzarri sono irrilevanti”. Quest’ultima regola sembrerebbe escludere capolavori come “L’Avventura della Banda Maculata” di Doyle, che prevede un omicidio compiuto da un serpente addestrato ad infilarsi in un condotto di riscaldamento, poi giù per una corda a campana il cui fiocco si estende fino al cuscino della vittima. Ma Eliot ammetteva che la maggior parte delle grandi opere rompeva almeno una delle sue regole. Infatti adorava Arthur Conan Doyle, ed era solito citare alla lettera lunghi passaggi dei racconti di Holmes alle feste, e prendere in prestito pezzi e idee per le sue poesie. (Confessò in una lettera a John Hayward che il verso “On the edge of a grimpen,” da “Four Quartets,” allude al desolato Grimpen Mire in “The Hound of the Baskervilles.”)

Nel numero di giugno 1927 di The Criterion, Eliot continuò ad articolare i suoi standard, recensendo altri sedici romanzi e facendo sottili distinzioni tra misteri, cronache di veri crimini e storie poliziesche vere e proprie. Il suo preferito del gruppo era “The Benson Murder Case”, di S. S. Van Dine. Uno dei pochi scrittori americani che entrò nelle analisi di Eliot sulla narrativa poliziesca, Van Dine era lo pseudonimo di Willard Huntington Wright, un critico d’arte, giornalista freelance e a volte editore di The Smart Set, che, dopo aver subito un esaurimento nervoso, passò due anni a letto a leggere più di duemila racconti polizieschi, durante i quali distillò metodicamente le formule del genere e iniziò a scrivere romanzi. Il suo detective, Philo Vance, era un esteta svagato incline alle mini-lezioni sulle statuette di Tanagra, che si avvicinava al lavoro investigativo, come disse Eliot con ammirazione, “usando metodi simili a quelli che il signor Bernard Berenson applica ai dipinti.”

Nel 1928, Van Dine avrebbe pubblicato le sue “Twenty Rules for Writing Detective Stories” su The American Magazine; lo stesso anno, Ronald A. Knox – un prete cattolico e membro del gruppo di scrittori di gialli London Detection Club, insieme a Dorothy Sayers, Agatha Christie e G. K. Chesterton – avrebbe presentato i suoi dieci comandamenti della narrativa poliziesca. È difficile sapere se questi autori fossero a conoscenza delle regole di Eliot, pubblicate l’anno prima, ma molti dei loro principi riecheggiano i parametri del fair play di Eliot: Van Dine scrisse che “nessun trucco o inganno intenzionale può essere fatto al lettore”; il giuramento del Detection Club, che era basato sui comandamenti di Knox, richiedeva ai suoi membri di promettere che le loro storie avrebbero evitato di fare uso di “Rivelazione Divina, Intuizione Femminile, Mumbo-Jumbo, Jiggery-Pokery, Coincidenza, o atto di Dio”. (Christie aveva testato i limiti della correttezza con il twist-ending del suo romanzo del 1926 “L’assassinio di Roger Ackroyd”, causando uno scalpore tra i devoti del genere; nel 1945 Edmund Wilson, dopo essere stato sommerso di posta arrabbiata dopo la pubblicazione del suo primo pezzo, scrisse un seguito intitolato “Who Cares Who Killed Roger Ackroyd?”in cui considerava la sua esperienza di lettura di una seconda serie di romanzi gialli “ancora più disilludente della mia esperienza con la prima”)

Ma confrontando le recensioni di Eliot con le regole di questi addetti ai lavori della detective-fiction, possiamo vedere quanto idiosincratici potessero essere i giudizi di Eliot. Laddove Van Dine specifica che “un romanzo poliziesco non dovrebbe contenere lunghi passaggi descrittivi, nessun indugio letterario con questioni secondarie, nessuna analisi dei personaggi sottilmente elaborata” – esattamente le qualità che Eliot ammirava tanto in “The Moonstone” – Eliot, da sempre lo storico della letteratura, vedeva il genere come derivante da una più profonda tradizione di melodramma, che per lui includeva tutto, dalle tragedie di vendetta giacobine a “Bleak House”. “Coloro che sono vissuti prima che fossero inventati termini come ‘fiction di alto livello’, ‘thriller’ e ‘detective fiction'”, scrisse Eliot in un saggio su Wilkie Collins e Dickens, “capiscono che il melodramma è perenne e che il desiderio di esso è perenne”. La buona narrativa poliziesca temperava la passione e la ricerca del melodramma con la “bellezza di un problema matematico”; una storia non riuscita, scriveva Eliot, era quella che “fallisce tra due possibili compiti… il puro piacere intellettuale di Poe e la pienezza e l’abbondanza di vita di Collins”. Ciò che apprezzava, in altre parole, era la capacità del genere di trasmettere l’intensità del sentimento e dell’esperienza umana all’interno di disegni formali tesi – una qualità che potrebbe applicarsi altrettanto bene alla narrativa letteraria o alla poesia.

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